Andare, camminare, lavorare

Da fine settembre sono tornata dentro una redazione per coordinare le persone e dare una mano dove serve.

Sono quella con l’orologio sott’occhio, anche se io per prima spesso e volentieri mi lascio marinare nei dubbi davanti a un testo. Quindi lotto innanzitutto contro una mia pulsione.

Sono contenta.

Non ho smesso di disegnare, e anche volendo non potrei: la bella notizia è che ho firmato diversi contratti per illustrare libri nel 2022.

Ho meno tempo, sento che corro e mi manca il fiato. Allo stesso tempo questa vita cambiata e fitta mi mostra degli spiragli, degli interstizi; oppure forse invece sono io che li vado a cercare o li strappo a forza nella tela dei giorni. Uno degli spiragli di quest’ultima parte dell’anno è stato andare al lavoro in bicicletta. Vivo a Piazza Bologna e lavoro a Ostiense: venti chilometri al giorno, dieci all’andata, dieci al ritorno. È una pedalata di tre quarti d’ora, punteggiata da posti da capogiro: via Nomentana, Porta Pia, piazza della Repubblica, i Fori, il Colosseo, Circo Massimo, Piramide. Vado in bici con una cassa che spara musica, un pendolo da Fabri Fibra a George Harrison che mi ha valso nel tempo molti complimenti e manifestazioni di curiosità da parte dei passanti. Spesso ho pensato che avrei voluto riprendere il viaggio col cellulare per far capire quanto può essere bello andare in bicicletta, ma poi ho pensato anche che la bellezza di quello che vedi in bici è data dal pedalare.

La cosa interessante di questi mesi è che avendo meno tempo disegno in modo diverso. Così almeno mi pare. Faccio disegni più sintetici, vado più dritta al punto; e mi pare di essere più prolifica di prima in meno tempo, di far tanti disegni uno dopo l’altro, seguendo onde che prima non sentivo così forti. Ho visto delle foto di mani e ci ho fatto nel giro di un’oretta una ventina di disegni, seguendo un ragionamento semplice – fondi colorati, tratto a matita, ombre a contrasto. I ritrattini che faccio in giro sono sempre più scomposti in forme astratte oppure sempre più sporchi di pennello. Le small faces che mi piacciono sono quelle sporche e vive, e a volte anche quelle che nell’ordine continuano a vibrare, come questa.

Negli ultimi tempi penso spesso a cosa sia la verità quando si parla. Mi dico spesso che io per prima, quando scrivo o formulo verbalmente qualcosa, lo faccio spesso anche inconsapevolmente per pararmi il culo – come si dice dalle parti di Amiens. È molto difficile parlare sinceramente. Io per prima non credo di sapere come si faccia. Per questo disegno. Il disegno è tutto una bugia – nel senso che è la costruzione o l’evocazione di un mondo che non esiste – ma è una bugia semplice, che tocca corde elementari, e proprio in quanto bugia semplice può generare nelle persone onde lunghe di significato. Che è un mezzo pippottone per dire che se nella bugia del disegno decido di riempire uno spazio immaginario di giallo puro, con quel giallo tocco qualcosa nelle persone che non so nemmeno bene io cosa sia, ma lo tocco.

Dentro di me ci sono diverse domande, una si chiede: chissà come mai ho usato così tanto il giallo canarino nei miei disegni, io che il giallo nella vita in carne e ossa l’ho sempre trovato un colore pacchiano e antipatico, il colore dell’invidia. L’altra si chiede: ma io riesco a essere sincera quando parlo con le persone? Quando parlo di me? Cosa vuol dire essere sinceri? E non riesco a capire quale delle due domande sia più seria.

Allora forse mi sto accorgendo che a volte le domande che dobbiamo porci su noi stessi per essere efficaci possono essere anche molto molto piccole. Per esempio io uso sempre il freno dietro nella bici, anche se mio fratello mi ha detto che è meglio usare quello davanti. Ma a me fa paura il freno davanti. Forse questa può essere una domanda che ti spiazza e ti fa rispondere sinceramente su chi sei, più che una domanda sulla pace nel mondo: tu usi il freno davanti o il freno di dietro?

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