Ieri ho visto Marx può aspettare, un film bello e doloroso di Marco Bellocchio che parla del suo fratello gemello perduto, e della sua famiglia, di come i fratelli e chi stava intorno al ragazzo Camillo hanno ricostruito negli anni questa morte.
Non volevo vederlo, inizialmente, perché anche mio padre ha perso un fratello, suicida come Camillo. Fratello suo, mio zio, lo amavamo tanto e tanto ci ha fatto arrabbiare, dopo – posso dirlo, all’inizio ci siamo arrabbiati – per essersi gettato. Negli stessi momenti, negli stessi giorni della morte di mio zio mio padre ha scoperto di essere malato – un uno-due di fatti tragici che per anni mi è sembrato una storia scritta da uno sceneggiatore mediocre e crudele, che se fosse esistito avrei picchiato volentieri. (Per un po’ ho sublimato la cosa con le bestemmie, che trovo essere esattamente il tentativo di picchiare quello che credi sia lo sceneggiatore mediocre della tua esistenza.)
Nel film a un certo punto la sorella di Bellocchio dice: non so se ci credo all’aldilà, io non so se ci credo più, saremo miliardi, come ritrovo il mio babbo, la mia mamma, Camillo?
Quando mio padre mi è venuto a trovare in sogno, è successo diverse volte, a volte era malato e a volte no; spesso mi diceva che non era morto, sempre salvifico era risentire la sua voce, sapere che in qualche luogo c’era, che in qualche posto della grande insondabile realtà lui esisteva.
Una volta una mia passata psicologa ha definito questi sogni riparativi o compensativi, una definizione simile, aggiungendo che era la mia mente che mi dava una mano nei momenti di sconforto facendo apparire mio padre; ho trovato e trovo ancora questa osservazione un’indelicatezza inaccettabile. Io sospendo il giudizio nel momento in cui mi pare che una persona a me cara mi torni a trovare perché non so cosa succede dopo la morte, men che meno dopo la morte di un mio caro; se il tuo ruolo nei miei confronti è quello della terapeuta, dovresti far lo stesso. Credermi o almeno non obiettare spiegazioni razionali quando ti dico che mio padre mi è venuto a trovare in sogno. Come non si capisce il tempo smontando una sveglia tu non capisci i miei sogni usando un linguaggio di settore.
Cerco sempre di vivere il compleanno di mio padre, che è oggi, come un’occasione di ricordarlo facendomi forza, di ricordarlo nel suo essere figlio del sole, di essere felice per lui e di averlo conosciuto; vivendo ora a Roma posso andare in quello che era il suo quartiere, rivedere la casa di nonna, la sua scuola elementare, il parco dove mi portava a giocare; appena finito di scrivere queste cose farò così, uscirò di casa e andrò a parco Nemorense in questo due settembre che come sempre a Roma sembra ancora estate piena.
La morte è una cosa brutta e ingiusta, però. Davvero brutta e ingiusta. E capisco il dolore, il terrore di non sentire più quella voce. E il terrore di non rivedersi mai più.
Per questo dico che non sappiamo cosa succede dopo la morte, che il filo può rimanere anche senza indagini sull’aldilà, che i sogni possono essere delle porte di cui nessuno ha la chiave definitiva.
Qualche mese fa ho sognato che piangevo perché sono orfana e piangevo senza consolazione, in modo completo e totale. Mi sono svegliata e il pianto è uscito nella vita vera, dirotto, spezzato, il pianto di un’ingiustizia, un pianto irrisolvibile, fine a sé stesso – e proprio per questo mi è servito farlo, piangerlo, non trovare una morale per lo spazio di quel momento.
Riguardo spesso questo video girato da papà in cui gli mostro il Corrierino dei piccoli seguita dalla mamma. Mio zio (non quello che se n’è andato) l’ha rivisto di recente con mia madre, e ha commentato dicendo che già prima di saper leggere si capiva benissimo che volevo lavorare con i libri o coi giornali e disegnare, e penso sia vero, e sarei tentata di dire a mio padre: vedi, tutti quei soldi spesi in libri, giornali, riviste, alla fine han fatto qualcosa, non hai fatto in tempo a vedere la mia prima laurea ma alla fine, vedi, a qualcosa è servito. Ma so che queste frasi non avrebbero molto senso rivolte a mio padre, che mi vorrebbe bene comunque, anche se quei soldi dati all’editore del Corrierino non fossero serviti a nulla, proprio come non sono serviti i soldi per le ripetizioni di greco o quelli (Gesù) per il basket – queste frasi, queste rassicurazioni che il Corrierino alla fine a qualcosa è servito, dovrei rivolgerle a me.
E allora a Giorgio dico: buon compleanno, adesso vado nel tuo quartiere, ti voglio bene, ti vedessi oggi sembreresti ancora giovanissimo, ci manchi davvero tanto però ce la caviamo, la mamma e i ragazzi stanno bene e sono bravi.
Ho letto una frase di Flaiano, che peccato, mi sa che io e te non abbiamo mai parlato di Flaiano, e la frase dice:
L’infanzia è l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare.
E grazie allora perché la mia infanzia, con te, la mamma e i fratelli, è stata bella – un luogo che è bello non abbandonare – e non è poco.